CHIOGGIA NEL CINQUECENTO
Il secolo XV lasciò una pesante eredità alla cittadina lagunare, che soffrì per un’epocale involuzione economica, aggravata da periodiche crisi annonarie ed epidemiche, le quali fecero oscillare l’entità demografica intorno ad una media di 10.000 unità. La definitiva scomparsa degli impianti per l’estrazione del sale dalle acque lagunari costrinse la popolazione a rivolgersi ad altre attività, fra le quali, nel corso del Cinquecento, prevalse la pesca marittima. La possibilità di uno sviluppo in senso commerciale, seppur sperimentata con discreto successo grazie ad investimenti nella flotta mercantile, venne compressa dalla rigida politica veneziana, tenacemente volta alla preservazione del primato assoluto dell’emporio realtino. D’altra parte il territorio comunale, povero di fondi coltivabili, non si prestava ad una sensibile estensione dell’agricoltura, dominata, sin dal tardo medioevo, dal vigneto. Anche l’artigianato, incentrato sulla cantieristica navale, offriva scarse energie per un sostanziale riscatto dell’economia locale. Pertanto alle forme tradizionali dello sfruttamento delle risorse ittiche lagunari e litoranee si aggiunse la pratica della pesca d’altura, destinata ad assurgere ad emblema dell’identità sociale di Chioggia nei secoli successivi.
La struttura sociale consolidò lo schema piramidale, contrassegnato da una larga base, attestata su un modesto tenore di vita, e un esiguo vertice, formato da poche famiglie, le quali fondavano le loro fortune sulla rendita fondiaria o sui profitti commerciali. Le generali condizioni economiche, intonate alla precarietà, non consentivano una feconda vita culturale, cui contribuirono singole personalità, che si misero in luce perlopiù nelle attività letterarie e musicali. La massa della popolazione, afflitta da generale analfabetismo, rimase estranea ai fermenti culturali e religiosi che animarono il Cinquecento europeo. Neppure il clero secolare poteva fungere da efficace polo educativo, sia a causa della sua carente formazione scolastica, sia a motivo dell’esaurimento dell’opera ministeriale nelle abituali pratiche liturgiche, cui veniva sacrificata l’ordinaria azione pastorale. La pietà popolare colmava i vuoti di quest’ultima attraverso forme innervate da spontaneismo e sostenute dalle associazioni devozionali, che aumentarono nell’età della Controriforma sulla scia della tradizione medievale. La cura d’anime dell’intera città era demandata al Capitolo dei canonici, che delegava tre vicari per le chiese rionali: cattedrale, S. Giacomo, S. Andrea. Non tutti i membri di tale organo collegiale rispettavano l’obbligo della residenza e, pertanto, la comunità ecclesiale soffriva per la mancanza di una guida stabile e radicata nel tessuto sociale. A tali lacune tentava di rimediare il clero regolare, suddiviso in tre poli: al centro gli Agostiniani Eremitani di S. Nicolò; i Domenicani sull’estrema isola settentrionale; i Francescani nell’immediata periferia meridionale. Il panorama ecclesiastico si arricchì di alcune comunità monastiche: due monasteri femminili (Benedettine a S. Croce e Cistercensi a S. Francesco Vecchio); il convento dei Cappuccini, ospitati nel vecchio ospedale Ca di Dio.
Una lenta serie di interventi modificò la morfologia urbana lasciata in eredità dall’epoca medievale e non più consona alle prevalenti attività economiche: aumentò il tasso di densità abitativa, si avviò una fase di sopraelevazione dell’edilizia privata, superando l’antico modulo della casa a pianterreno, avanzò il processo d’interramento delle canalette interne delle contrade, si escluse dallo spazio residenziale qualche attività produttiva (orti, cantieri, cordai), si aggiunsero nuovi luoghi di culto, si sperimentò per un ventennio l’isolamento fisico del corpo urbano sotto l’assillo di un attacco nemico da terra. Nel contempo si acuirono i problemi ambientali legati agli squilibri idraulici di cui soffriva l’area lagunare, assediata da corsi fluviali e dall’inesorabile avanzare del canneto, concepito come il preludio dell’interramento dell’invaso lagunare. La salvaguardia di quest’ultimo – tema vitale per la sopravvivenza della stessa Venezia – impegnò assiduamente le autorità, la cui opera fu sostenuta dal prezioso contributo di Cristoforo Sabbadino, fautore della priorità della laguna nelle soluzioni intraprese dal governo veneto.